Intervista a Dario Galimberti
Come mai, lei che si occupa d’altro da tanto tempo – architetto premio Palladio e docente universitario – ha scritto un romanzo?
Nel 1977, quando ero studente, lessi un libro di Ernest Hemingway: Festa mobile. Quel libro mi colpì molto e suscitò la mia fantasia di giovane studente d’architettura. Conservo ancora quella copia, un Oscar Mondadori tradotto da Vincenzo Mantovani, dove Hemingway narra della sua vita parigina negli anni venti, tra personaggi famosi, bistrò e malinconia. Due cose mi colpirono particolarmente più del racconto in sé: il modus operandi dell’aspirante scrittore bohémien e la strategia compositiva.
Il modus operandi rilevato, si riferiva all’abilità dello scrittore nel calarsi nel proprio mondo immaginario, pur essendo fra gli altri, e vivere appieno entrambe le situazioni: “Il racconto si scriveva da sé e io facevo fatica a non restare indietro. Ordinai un altro rum St. James e guardavo la ragazza ogni volta che alzavo gli occhi, o quando facevo la punta alla matita con un temperamatite dal quale i trucioli cadevano arricciandosi nel piattino sotto il mio bicchiere.”
La strategia compositiva rilevata si riferiva invece all’idea della referenza opportuna, ma anche irrazionale quale elemento costitutivo di un qualunque progetto (per me era un progetto d’architettura): “Ti ho visto, bellezza, e ormai tu mi appartieni, chiunque tu stia aspettando e anche se non ti rivedrò mai più, pensavo. Tu mi appartieni e tutta Parigi mi appartiene e io appartengo a questo taccuino e a questa matita.”
L’immagine di Ernest Hemingway, seduto in un angolo di quel bistrò in Place St-Michel a Parigi, concentrato in alternanza tra: il taccuino e la sua storia, l’andirivieni dei clienti dal locale, la matita e il rum della Martinica, mi ha accompagnato per parecchio tempo. Dalla sua posizione egli poteva vedere l’ingresso, la strada, il quartiere Latino, Parigi, e tramite la sua matita, tutto il mondo: una cosa ai miei occhi meravigliosa.
Da allora ho sempre accompagnato i progetti con un testo che ne spiegasse, oltre che il contenuto anche la strategia compositiva, e a volte il significato prospettato. Alcuni sono stati pubblicati su riviste specialistiche o libri di settore, altri invece sono rimasti nei dossier dei rispettivi clienti.
Qualche anno fa, dopo tanto tempo, mi son fatto coraggio, e ho iniziato a scrivere questa storia che da parecchio mi frullava per la testa. È stato piacevole e intrigante, tanto da cercare una situazione analoga a quella descritta in “Festa Mobile”. La matita, il temperamatite e il taccuino sono stati sostituiti dall’iPad, il rum della Martinica dal caffè tazza grande, il bistrò in Place St-Michel da un caffè-pasticceria: ma Lugano non è Parigi e io non sono Hemingway.
C’è uno scrittore che l’ha ispirata per questo suo primo libro?
Quando ero giovane, oltre a Hemingway, leggevo romanzi di scrittori piuttosto complicati: Camus, Borges, Bataille eccetera. Ora preferisco cose più leggere e tranquille: Vitali, Grisham, Sepúlveda, Crichton. Di quest’ultimo ho letto quasi tutto e credo che Il Bosco del Grande Olmo riprenda da Michael Crichton l’interesse e il gusto per le trame con argomenti scientifici.
Che tipo di ricerche ha dovuto fare prima e durante la stesura del suo romanzo?
Innanzitutto quelle relative agli argomenti tecnologici e scientifici narrati, e poi tutte quelle riguardan
ti la location. Ambientare una storia in luoghi reali, significa giocoforza parlarne con una certa precisione. Al giorno d’oggi è però davvero facile trovare la documentazione necessaria. Ho anche fatto in modo che tutto quello che i protagonisti fanno utilizzando Internet, lo può fare veramente anche il lettore, ottenendo gli stessi risultati che sono descritti nel libro.
Durante la stesura mi sono reso conto che non riuscivo più a gestire a memoria la linea del tempo, perché era diventata troppo complicata: il cambio orario, le differenze delle ore, i flashback eccetera. Per cui ho dovuto allestire un calendario/orario speciale dove indicavo, di volta in volta, i fatti e gli eventi relazionati al tempo e al luogo.
Alcuni spazi e situazioni li ho disegnati per meglio descriverne le dinamiche e le vicende che vi accadevano.
Ho raccolto anche tutta una serie di immagini di personaggi, e dopo averle uniformate graficamente, le ho usate per delineare al meglio i protagonisti e dare loro un aspetto nella mia mente.
Quali sono state le principali soddisfazioni nel percorso che l’ha portata a pubblicare un libro?
Riuscirci.
A quale personaggio ed episodio del suo libro è più affezionato e perché?
Il coordinatore degli hacker e dei cracker è il personaggio che preferisco. Anche se lui fa parte della storia, è però come se fosse una sorta di narratore parallelo: non racconta ma vede, attraverso i suoi marchingegni, quasi tutti gli avvenimenti che accadono. Li osserva, li giudica e strada facendo si fa una sua opinione e alla fine potrebbe essere in grado di cambiare il corso del racconto.
L’episodio che più prediligo è la spiegazione del wormhole. Volevo spiegare un concetto scientifico teorico, molto complesso, di cui non ne so nulla. Il risultato sembra verosimile, però non saprei se un esperto in materia penserebbe la stessa cosa.
Ha altri libri nel cassetto o progetti in fase di stesura?
Il secondo è fatto ed è tuttora in promozione. Nelle cartelle del computer ce ne sono altri, ma per il momento sono solo delle idee.
Se potesse vivere in un luogo in cui ha ambientato la sua storia, quale sarebbe?
Be’! Tra Londra e il Bosco del Grande Olmo sceglierei il secondo: anzi, non è detto che prima o poi non ci vada per davvero.
Il libro è acquistabile nelle librerie tradizionali e qui:
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